"Non è accettabile che nel settore finanziario i benefici del successo vengano attribuiti ad una minoranza mentre i costi del fallimento siano messi in conto a tutti noi. I mercati finanziari globali vanno guidati verso una maggiore aderenza ai valori condivisi dalla stragrande maggioranza dei cittadini: duro lavoro, senso di responsabilità, integrità e correttezza. Dobbiamo ideare un contratto sociale ed economico più efficiente tra istituzioni finanziarie e il pubblico, che si basi sulla fiducia reciproca e sulla equa distribuzione di rischio e rendimento." Non è la citazione di un militante no-global: è un estratto del discorso con cui il premier britannico, Gordon Brown, si è rivolto ai colleghi del G20 dello scorso fine settimana, tenutosi a St. Andrews (Scozia).
Brown fa sapere al mondo che desidera mettere in riga le banche, cioè quelle efficienti istituzioni che, secondo una stima di Bloomberg, sono costate ai cittadini dei paesi occidentali qualcosa come 500 miliardi di dollari tra iniezioni di capitale a copertura delle perdite, garanzie ed altre forme di salvataggio dal fallimento. Brown non ha una ricetta ben definita: potrebbe infatti trattarsi di costringere le banche a pagare il premio di una specie di "polizza assicurativa" a fronte del diritto ad usufruire del sostegno pubblico in caso di necessità (ipotesi sponsorizzata dagli Americani); ovvero della costituzione di un fondo speciale; o dell'emanazione di regole transitorie in materia di capitale da allocare a fronte degli impegni assunti; oppure ancora - teniamoci forti - di una tassa globale sulle movimentazioni di tipo finanziario (operazioni in cambi e derivati).
Brown ha tirato fuori la Tobin Tax dal cassetto in cui stava ammuffendo dagli Anni Novanta, e oggi sembra che le sue opinioni in tema di tassazione dei capitali non differiscano molto da quelle di Attac, la ONG che ha fatto della "tassa Tobin" uno dei suoi cavalli di battaglia. Una mossa che ha spiazzato politici e commentatori, anche perché tassare le transazioni finanziarie è considerata un'idea un po' estremista ai limiti del socialismo reale. Senza contare che ogni volta che è uscita dalle accademie per finire dentro qualche programma politico, ha avuto vita breve (e difficile).
L'ultimo caso si è verificato la scorsa estate in Gran Bretagna, quando Lord Adair Turner, capo della Financial Services Authority (la CONSOB del Regno Unito) in una intervista al mensile Prospect, ha sostenuto che per rimettere in sesto il settore finanziario britannico si rendono necessari interventi talmente drastici da far sembrare la polemica sui bonus dei banchieri "una digressione populista"; Turner ha poi sparato a zero sulla City, la quale, lungi dall'essere il fiore all'occhiello dell'economia d'Oltre Manica, ne costituisce invece l'elemento destabilizzante per eccellenza. Impagabile il passaggio dell'intervista in cui Lord Turner si duole del fatto che la finanza in questi anni ha risucchiando alcuni dei migliori talenti del Paese per aggiogarli a lavori "socialmente inutili". Turner conclude il suo intervento incendiario dichiarando che una eventuale tassa globale sulle transazioni finanziarie è un modo accettabile per contenere gli attività e profitti del settore finanziario, ormai fuori controllo.
Il numero di Prospect con la sua intervista è appena uscito dalle rotative e Turner è costretto a difendersi da una lapidazione mediatica: le questioni relative alla tassazione non sono materia del Ministro delle Finanze, non del capo di un'Authority, che invece dovrebbe occuparsi di regolamentare il mercato, gli si fa notare freddamente; l'idea di una tassa sui movimenti finanziari è roba per malati di mente - quasi impossibile da applicare e gravemente dannosa della principale attività del Paese, la finanza (60% del PIL della Gran Bretagna). Dettaglio interessante: in quell'occasione, il governo non si affretta (anzi) a difenderlo mentre sul suo capo solenne piovono incudini dai piani alti di Canary Wharf.
Guardandola dal punto di vista della politica interna, la boutade di Brown va inserita nel contesto dei risultati disastrosi del suo mandato e costituisce l'estremo tentativo del premier di guadagnare qualche consenso progressista dicendo qualcosa talmente "di sinistra" da essere inapplicabile. Questa è anche l'interpretazione (forse un tantino ingenerosa) che dell'uscita di Brown fa Vincent Cable, portavoce del Liberaldemocratici: "Una Tobin Tax è una buona idea, lo è stata da decenni, ma i governi ancora non hanno mai trovato modo di applicarla. Brown farebbe meglio a sfruttare il breve periodo che lo separa dal termine del mandato per introdurre misure più pratiche, quali l'incremento delle imposte sulle banche che sono troppo grandi per poter fallire." Eppure, l'idea sviluppata dall'economista premio Nobel nei primi anni Settanta (mettere "un po' di sabbia tra gli ingranaggi della finanza" per limitare i movimenti speculativi) è tuttora valida, e probabilmente non merita di essere cestinata senza qualche approfondimento.
A prescindere dalle questioni di cucina laburista, come sottolinea William Hunt sul Guardian, la provocazione di Brown è "perfetta". In effetti essa non è che un modo per rispondere alla domanda che molti cittadini si stanno ponendo in questi mesi: la relazione tra la Grande Finanza e i cittadini tassati è simmetrica e corretta? Non sembra proprio. Inoltre, non è vero che un'eventuale tassa Tobin sarebbe complicata da applicare e ridurrebbe la liquidità del sistema: al contrario, se dovesse passare la proposta americana, che prevede scambi centralizzati per una gran quantità di transazioni finanziarie, la tassa potrebbe essere applicata in modo assai agevole. Ma soprattutto è assurdo sostenere che la possibile riduzione del volume transato sui mercati in conseguenza della tassazione sarebbe un danno in senso assoluto, come argomentano molti nemici della Tobin tax.
Hunt ricorda che il volume delle transazioni che circolano sui mercati finanziari vale 10 volte il PIL mondiale: "Le dimensioni dei mercati finanziari sono esplose; essi sono dominati da banche-portaerei in grado di prendere in prestito migliaia di miliardi di dollari che, in caso di crisi di fiducia, possono buttar giù intere economie. Un modello efficiente solo per i singoli banchieri, i quali sono messi in condizioni di guadagnare fortune, ma inefficiente per tutti gli altri."
Secondo uno modello sviluppato di recente dall'Istituto Austriaco di Ricerca Economica, una tassa Tobin dello 0.05% su tutte le transazioni in divisa, in azioni e in derivati, produrrebbe un gettito di 360 miliardi di dollari l'anno; ma anche un gettito di 36 miliardi l'anno, corrispondente ad un'aliquota pari ad un decimo dello 0.05% (cioè dello 0.005%) produrrebbe un gettito interessante (36 miliardi). Max Lawson, consigliere anziano della ONG Oxfarm, non nasconde il suo entusiasmo: "Sarebbe un passo significativo nel processo di risanamento dopo il disastro provocato dall'avidità sfrenata dei banchieri. Ogni minuto, cento persone nel mondo vengono gettate nella povertà estrema a causa della crisi economica. Il denaro ricavato dalle transazioni finanziarie potrebbe cambiare radicalmente le loro vite."
Purtroppo a freddare gli entusiasmi di Brown e dei fan della Tobin Tax arrivano i rappresentanti di USA e Canada. In particolare, Geithner, in un'intevista a Sky News, ha dichiarato: "Questa tassa non è tra le misure che siamo pronti a sostenere, ma ritengo che tutti condividiamo il basilare interesse a governare un sistema in cui i cittadini che pagano le tasse non siano esposti ai rischi ed in cui le istituzioni finanziarie subiscono le conseguenze dei loro errori." Secondo Alastair Darling, che è subito corso in aiuto di Brown, la relativa freddezza di Geithner sul progetto di una tassa sulle transazioni finanziarie non esclude che anche gli USA stiano pensando a qualche strumento diverso che abbia comunque per oggetto il settore finanziario.
Non è escluso che quella di Darling sia la difesa d'ufficio di un autorevole compagno di partito e di governo di Brown; ma è difficile dare torto al collaboratore di Brown intervistato dal Guardian quando sostiene che anche i salvataggi statali delle banche e il condono del debito dei paesi in via di sviluppo fino a pochi anni fa erano considerati idee astratte ed invece hanno finito per guadagnare consenso in patria e all'estero. Ora la palla è nel campo americano.
di Mario Braconi
fonte: http://www.altrenotizie.org/
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