Guerre e crisi di inizio millennio hanno messo prepotentemente sul tavolo delle grandi potenze economiche il tema dell’energia. Le esigenze improrogabili di approvvigionamento dei paesi emergenti e la ricerca di soluzioni nuove ed ecocompatibili in Occidente pongono sfide inedite in un panorama sempre più instabile dominato da prezzi del petrolio ormai fuori controllo. L’Italia è travagliata da una storica carenza di materie prime, da una eccessiva dipendenza dall’estero per le importazioni, dal paradosso di una tecnologia all’avanguardia e di un sistema ancora ingolfato e “fragile”: in questo contesto cerca di impostare una nuova politica dell’energia. Fra mille difficoltà. Ne parliamo con Davide Tabarelli, presidente e fondatore di Nomisma Energia.
Un discorso sull’energia in Italia non può prescindere dal tema del gas: se ci limitiamo alla produzione di energia elettrica, copre da solo più del 54% della produzione nazionale. Ci serve per l’elettricità e per il riscaldamento, ma l’altalena dei prezzi del greggio lo condiziona e ci rende troppo esposti alle speculazioni, come rilevato di recente anche dall’Autorità per l’Energia. Certo stiamo costruendo il South Stream con Gazprom e diversi rigassificatori: importiamo da decenni da Libia e Algeria, ma qualche dubbio rimane sulla nostra sicurezza energetica. Lei cosa ne pensa?
È un dato storico. La rinuncia al nucleare a fine anni ’80 ci ha costretto a puntare tutto, o quasi, sul gas; però oggi stiamo gradualmente diversificando i nostri fornitori esteri. Senza considerare che paesi come la Russia, l’Algeria o la Libia negli scorsi decenni si sono dimostrati in realtà estremamente affidabili. Questo anche perché hanno più bisogno loro di esportare, che noi di importare, anche solo per mere questioni di reddito.
Dopo la rivoluzione arancione e il contrasto tra Russia e Ucraina però si è deciso di aggirare Kiev con il Nord Stream sul versante tedesco e il progetto europeo Nabucco a Sud. In concorrenza con questi progetti l’Eni ha avviato la costruzione di South Stream con Gazprom: ora ne vorrebbe far parte anche la francese EdF che potrebbe far cadere le riserve tedesche e americane sul progetto o almeno metterle in un angolo. South Stream fa bene al ruolo dell’Italia in Europa?
Sicuramente sì e ci permette anche di portare a Bruxelles delle istanze fondamentali per il nostro Paese che non è sempre ben visto in Europa. Si crea forse qualche problema per Edison e per il suo progetto Itgi collegato alla Grecia, ma è un male minore a confronto.
Proprio a EdF ci riporta alla decisione del governo di tornare al nucleare. Si parla di quattro centrali da 4 miliardi ciascuna costruite dalla francese Areva per il tandem EdF-Enel. La tecnologia scelta è quella dell’Epr, che però ha creato diversi problemi: forti ritardi, lievitazione dei costi sia in Francia che in Finlandia, incidenti di diversa natura... Al momento, inoltre, non è ancora attivo nessun reattore di questo tipo. Intanto la Germania cerca di uscire, con molte difficoltà, dall’energia atomica. Facilmente prevedibili in Italia contestazioni e ritardi. Lei che ne pensa?
Quelli sulla nostra nuova stagione nucleare sono senz’altro dubbi legittimi e tutte le difficoltà legate allo sviluppo dell’Epr sono concrete, ma siamo sicuri che con l’AP1000 della Westinghouse avremmo meno difficoltà? Sicuramente no. Bisogna ricordare che la Francia fa centrali dagli anni ’60, che Areva ha una competenza e un’esperienza gigantesche in questo settore. Quanto all’uscita dal nucleare di paesi come la Germania voglio ricordare il caso di Tony Blair che in Gran Bretagna aveva proposto la stessa cosa: calcolò che gli sarebbe costato circa 90 miliardi di euro e fece un passo indietro. Ora in Gran Bretagna proprio i tedeschi di E.On e Rwe vogliono fare delle nuove centrali con la joint venture Horizon Nuclear Power. La Danimarca intanto sta rifacendo i propri impianti.
I prezzi crescenti dell’uranio, il costo della trasformazione in carburante, il costo degli impianti e dello stoccaggio delle scorie, i problemi di sicurezza creano, però, grossi problemi a tutti gli operatori del settore. Conviene così tanto il nucleare? Quanto pesa poi il fatto che il nucleare non produca, o quasi, anidride carbonica in un periodo in cui i vincoli del Protocollo di Tokyo puniscono duramente chi emette CO2?
In realtà, da un punto di vista economico, se si considera tutto il ciclo, il nucleare non è poi così conveniente rispetto alle altre forme di energia. Anche perché, fatta una centrale, bisogna essere certi di vendere l’elettricità prodotta. Il vero grande vantaggio del nucleare è proprio l'assenza di emissioni di anidride carbonica rilasciate nell’ambiente. È questo il fattore che in prospettiva fa la differenza.
Fonte: www.borsaitaliana.it